ROMA – Il trattato è entrato in vigore e annuncia una lotta serrata alla biopirateria. Da domenica 12 ottobre, via libera al Protocollo di Nagoya, il documento sull’Accesso alle Risorse Genetiche e l’equa condivisione dei benefici derivanti dal loro utilizzo. Adottato dalla Conferenza delle Parti della CBD, Convenzione sulla Biodiversità Biologica, nel corso della sua X Riunione il 29 ottobre 2010 a Nagoya, in Giappone, è stato aperto alla firma il 2 febbraio 2011 e ratificato da 51 Paesi.
PRESERVARE LA RICCHEZZA DELLA BIODIVERSITÀ – Un risultato storico, in quanto costituisce un possibile anello di congiunzione tra le politiche per la conservazione della biodiversità e quelle per la lotta alla povertà. Esso, infatti, garantendo ai Paesi che dispongono di una ricca biodiversità la ripartizione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse, li incoraggia a preservare questa inestimabile ricchezza.
CERTEZZA GIURIDICA E TRASPARENZA – Il Protocollo di Nagoya adotta un quadro giuridico condiviso, che regolamenta l’accesso alle risorse genetiche e garantisce una equa ripartizione dei benefici derivanti dal loro utilizzo. Gli addetti ai lavori garantiscono che la sua applicazione fornirà maggiore certezza giuridica e trasparenza, facilitando sia per i fornitori che per gli utilizzatori, l’accesso alle risorse genetiche ed alle conoscenze tradizionali.
LOTTA ALLA BIOPIRATERIA – Ora che la lotta alla biopirateria dispone di uno strumento internazionale contro i prodotti tipici ed ecologici “sfruttati” o contraffatti dalle grandi aziende, in alcuni casi al punto da renderli completamente insostenibili, scopriamo quali sono le principali vittime sul mercato.
LE VITTIME – Quali sono i maggiori prodotti vittima della biopirateria? I colpevoli: Lipton, Coca-Cola, Nestlé, RiceTec, Dietor, Misura, Monsanto. Le vittime: thè, grano, quinoa, olio, stevia, vino, rooibos, riso, melanzane e soia.
1) THÈ LIPTON AI PESTICIDI – Greenpeace aveva già rivelato i retroscena oscuri di questo prodotto, di marchio Unilever, multinazionale anglo-olandese proprietaria di molti tra i marchi più diffusi nel campo dell’alimentazione, bevande, prodotti per l’igiene e per la casa. In alcuni campioni era stata individuata la presenza di pesticidi banditi dall’Unione Europea. Una delle sostanze ritrovate, chiamata Bifenthrin, secondo gli esperti potrebbe interferire nella produzione degli ormoni maschili. Greenpeace ha richiesto a Lipton l’immediata riduzione delle sostanze dannose impiegate nella produzione di thè e l’introduzione di maggiori controlli sulla qualità.
2) IL GRANO KHORASAN DI KAMUT – Kamut non è affatto una tipologia di cereale, ma bensì un marchio registrato. Si tratta di un’omonima società che ha imposto il marchio al grano khorasan coltivato in Canada. In questo modo, l’azienda ne ha guadagnato in buona sorte l’esclusiva che ne le ha fatto fruttare fior fior di quattrini.
FALSI PUBBLICITARI – “Risalente dall’Antico Egitto”, sponsorizza la Kamut, ma sarebbe bene sapere che alcuni grani antichi vengono coltivati anche in Italia. Una varietà di grano khorasan, non registrata dal marchio Kamut, si trova ad esempio in regioni come Abruzzo, Basilicata e Campania, dove troviamo il grano Saragolla. Altra varietà di grano antico italiano è il Senatore Cappelli.
(Biopirateria e multinazionali: le precisazioni dell’azienda del grano khorasan KAMUT®)
3) LA QUINOA INSOSTENIBILE – Conosci la quinoa? Pianta erbacea annuale della famiglia delle Chenopodiaceae, parente agli spinaci e la barbabietola, se sottoposti a macinazione i semi di questa pianta, forniscono una farina contenente prevalentemente amido, conferendole a pieno titolo il la classificazione come cereale, nonostante non appartenga alla famiglia botanica delle graminacee o poacee. Si distingue da altri cereali per l’alto contenuto proteico e per la totale assenza di glutine, il che la rende un alimento privilegiato per i celiaci.
TESTIMONE DELLA BIODIVERSITÀ – La quinoa è testimone di biodiversità, già venerata dagli Inca come pianta sacra, viene coltivata da oltre 5000 anni sugli altipiani pietrosi delle Ande ad altitudini comprese tra 3800 e 4200 metri. È una pianta resistente che non richiede particolari trattamenti. Produce una spiga (panicolo) ricca di semi rotondi, simili a quelli del miglio. Le migliori varietà crescono nei territori salmastri del Salar, nelle zone di Oruro e Potosí.
LE LOBBY DELLA QUINOA – Il 2013 è stato dichiarato, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Anno internazionale della quinoa. È stata eletta cibo per le generazioni presenti e future a sostegno della biodiversità, per il suo valore nutritivo e per l’eliminazione della povertà, a sostegno del raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio. Meno “dichiarato” è il commercio che c’è dietro la quinoa. La coltivazione ne è diventata insostenibile, al punto che dal 2006, il prezzo della quinoa si è triplicato. I consumatori sono disposti a pagare di più per un alimento del genere, ma in realtà a guadagnarci sono solo le lobby del grano.
CONTRO LE LOBBY – Perù, Ecuador, Cile, Francia ed Argentina si dividono la fetta, ma irrisorio è il guadagno dei contadini locali che si occupano della produzione nei loro terreni. La soluzione? Scegliere quinoa bio e solidale, che non venga coltivata sfruttando l’ambiente e i lavoratori. Per saperne di pià cliccate su Altromercato.it.
4) L’OLIO DA LAMPADE SPACCIATO PER BIO – Nel mirino della biopirateria c’è anche l’olio bio. Lo scorso settembre i NAC sequestrarono 250 litri di olio extravergine d’oliva falso: era olio per lampade. Si trattava, infatti, di un olio di qualità molto scarsa, non adatto all’alimentazione, che in passato sarebbe stato utilizzato per le lampade ad olio e mai di certo in cucina.
LA CRISI DELL’OLIO MADE IN ITALY – Ma se l’olio bio non ha vissuto un bel periodo, non si potrebbe dire di meglio per l’olio extravergine di casa nostra. “‘Il suicidio dell’olio italiano’, la bufera scoppiata dal fumetto del New York Times” è in sintesi ciò che accadde un anno fa, raccontato dal New York Times, sull’olio Made in Italy contraffatto da prodotti provenienti da Paesi come la Spagna, il Marocco e la Tunisia.
5) LA STEVIA GREEN – Basta aggiungere la stevia per rendere una bevanda green? Per la Coca-Cola a quanto pare sì. Con il marchio “Coca Cola Life“, ecco che la multinazionale americana ha lanciato sul mercato sudamericano una bibita gassata dolcificata con la stevia. Pubblicizzata come naturale, benefica e a basso contenuto calorico, la multinazionale l’ha definita anche bevanda adatta per obesi o diabetici.
BVO NELLA COCA-COLA – In realtà, secondo gli esperti, inserire la stevia tra gli ingredienti della Coca-Cola non rende la bevanda né più salutare né più sostenibile. L’estratto di stevia utilizzato per dolcificare la nuova Coca Cola prende il nome di Truvia, e sarebbe già stato impiegato per le versioni a minor contenuto calorico di Fanta e Sprite. Eppure la Coca-Cola già ne aveva avuti di problemi, con i cosiddetti Bvo: “Svelato l’ingrediente segreto della Coca-Cola: peccato che sia nocivo per la salute“.
DIETOR E MISURA NELLA LISTA DEI CATTIVI – Ma nella lista dei cattivi della stevia, ci sono anche Dietor e Misura. La verità è che possiamo coltivare questa piantina di dolcificante naturale anche sul nostro balcone, così come acquistarla come prodotto confezionato naturale presso i piccoli produttori italiani. In Argentina, ad esempio, proprio per contrastare le multinazionali è nato un progetto per coltivare la stevia in modo sostenibile.
6) UN BICCHIERE DI VINO AI PESTICIDI – I pesticidi sono finiti anche nelle bottiglie dei vini francesi. Di recente gli esperti hanno identificato pesticidi multipli, comprese sostanze proibite. I vini da agricoltura biologica avrebbero dovuto esserne del tutto privi, dato che l’impiego di pesticidi nei vigneti bio è vietato.
LO SCANDALO DELLE BOTTIGLIE FRANCESI – A scoprirlo, un’associazione francese, la UFC-Que Choisir. Il gruppo ha richiesto l’analisi in laboratorio di 92 bottiglie di vino nazionale, alla ricerca di eventuali residui di pesticidi. In ogni tipologia di vino analizzata furono identificate tracce di fitofarmaci. I casi più eclatanti riportati dalla stampa francese, riguardano una bottiglia di Château Roquetaillade-le-Bernet del 2011, che conteneva la percentuale di pesticidi più elevata, pari a 1682 microgrammi per kg, e una bottiglia di Mouton Cadet, un rosso del 2010: le analisi riportano la presenza di 14 tipologie di pesticidi differenti.
TUTELARE I CONSUMATORI – Possibile che una contaminazione delle uve da vino si verifichi per via della vicinanza tra vigneti coltivati secondo l’agricoltura biologica e vigneti convenzionali? Ai posteri l’ardua sentenza, resta però l’importanza dei controlli, da effettuare con cadenza regolare per tutelare i consumatori.
7) LO STRANO CASO DEL ROOIBOS DI NESTLÉ – Il rooibos, noto anche con il nome di redbush o tè rosso africano, è un infuso ricavato dalle foglie dell’omonima pianta, appartenente alla famiglia delle leguminose. Il termine rooibos significa “arbusto rosso” e deriva dall’afrikans, una delle lingue ufficiali del Sudafrica. Questa specie vegetale cresce soltanto nella regione del Cederberg. I primi a preparare la bevanda e goderne dei benefici sono stati i nativi del luogo… finché non ci ha messo su le mani la Nestlé.
L’INCHIESTA CONTRO LA NESTLÉ – Il rooibos è conosciuto soprattutto come infuso, ma i suoi impieghi raggiungono anche la cura della pelle e dei capelli. Un’inchiesta condotta dalla Dichiarazione di Berna e da Natural Justice ha rivelato che cinque domande di brevetto sul Rooibos depositate da Nestlé nel 2010, per quanto riguarda l’impiego del rooibos in prodotti cosmetici e nutraceutiici, contravvenivano alla legislazione sudafricana e alla Convenzione sulla Biodiversità.
8) IL RISO BASMATI DELL RICETEC – Fragrante e dal gusto delicato, anche il riso basmati che finisce nelle mani della biopirateria. La Action Aid lanciò lanciato una campagna per arginare il fenomeno dopo che l’azienda RiceTec depositò un brevetto per una particolare tipologia di riso basmati, ottenuta dalla combinazione con una varietà di riso americana.
BREVETTO REVOCATO – Correva l’anno 1997 e la RiceTec si difese dalle accuse sostenendo che questo brevetto, applicato su una singola varietà, non avrebbe leso la produzione di riso basmati. Difesa debole, boicottaggio e proteste dei contadini, hanno permesso in seguito che il brevetto fosse revocato.
9) LE MELANZANE INDIANE – Il caso fu trattato particolarmente da Le Monde: “Monsanto poursuivi pour biopiraterie’ par l’Inde“, citava il titolo di un articolo del quotidiano francese. La Monsanto, multinazionale americana di biotecnologie agrarie, oggetto di numerose cause legali mondiali per i suoi brevetti, avrebbe cercato di creare nuove sementi da una varietà di melanzana coltivata in India.
MONSANTO ACCUSATA DI BIOPIRATERIA – Il prodotto, coltivato da generazioni nello Stato dell’Asia meridionale, è stato ottenuta dopo numerosi incroci curati dagli agricoltori locali, per ottenere alimenti migliori e ortaggi più resistenti. In India la multinazionale americana è stata accusata di biopirateria, un caso più unico che raro per Monsanto, che ha portato alla vittoria degli oppositori indiani agli Ogm.
10) IL MAXI SEQUESTRO DELLA SOIA BIO IN ITALIA – Arriviamo poi alla soia. Giugno 2013, in Italia scatta un maxi sequestro per la soia biologica. Come riportato da parte dell’Agi, la soia sequestrata nel nostro Paese fu contaminata da una sostanza tossica in quantità talmente elevata da renderla invendibile. Il prodotto, non solo non poteva essere venduto come bio, ma nemmeno come alimentare convenzionale.
SCEGLIERE PRODOTTI DA FILIERA CORTA ITALIANA – State pensando ai ristoranti giapponesi vero? Il vero problema, non è neanche quello. La necessità di incrementare la coltivazione di soia, soggetta talvolta anche all’impiego di sostanze tossiche o illegali, è strettamente legata alla produzione di mangimi destinati agli animali da allevamento. Come fare allora? Occorre scegliere sempre soia e prodotti a base di soia italiani, senza Ogm e garantiti da materie prime provenienti dalla filiera corta italiana.